Categoria: ‘I Promessi Divorziati’

CAPITOLO LXIII

Il giorno seguente in tutto il territorio non si parlava che di Prestigiacoma, dell’innominato Venerabile, di Tettamanzi e d’un altro tale, che d’esser chiacchierato n’avrebbe fatto volentieri di meno: vogliam dire il signor Dell’Utri. Il quale, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall’avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, pronto com’era ad afferrar la preda per lui rapita alla protezione bergogliana, stette rintanato nel suo palazzotto a rodersi, per due giorni; il terzo, partì per Milano. Ma neppure nei sotto la Madonninasantissima potendo levarsi da un impiccio così noioso come un pluriannuale processo di mafia, alzatosi una mattina prima del sole, si mise in un charter privato, con Corona e con altri cortigiani, di fuori, davanti e di dietro; e partì come un fuggitivo verso Beirut, come (ci sia un po’ lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone, che il colto Marcello invece apprezzerà), come Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette.


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CAPITOLO LXII

– E Renzi? – disse Emmabonina.
– È in salvo, n’è vero? – disse ansiosamente Prestigiacoma.
– Questo è sicuro, perché tutti lo dicono; si tien per certo che si sia ricoverato nell’aretino; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: e lui finora non ha mai fatto saper nulla. Che non abbia ancora trovata la maniera. Eppur par strano, lui che pur quando scorreggia manda un twit…
– Ah, se è in salvo, sia ringraziato il Signore, pur se aerofagico cibernetico! – disse Prestigiacoma; e cercava di cambiar discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata: la comparsa del cardinal Tettamanzi.


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CAPITOLO LXI

Per D’Alema questo ritorno non era certo così angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella pauraccia, s’era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’è stato sbarbato un grand’albero, mettiamo una Quercia secolare od un Ulivo millenario, il terreno si copre tutto d’erbacce. I massoni non gli facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il Gran Maestro. “Ma, – rifletteva però, – se la notizia di questa gran conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come l’intenderanno costoro! Povero me! mi martirizzano! Altro che corse alla presidenza europea o missioni internazionali da pensionato riformista seguendo il modello di Carter!”.
Basta; s’arrivò in fondo alla scesa, e s’uscì finalmente anche dalla valle. La fronte di Gelli s’andò spianando, ché a volte il buon pensare sereno fa più del botulino.


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CAPITOLO LX

D’Alema fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l’affanno e l’amaritudine che gli dava una tale proposta.
Gli domandò poi Tettamanzi, che parenti avesse Prestigiacoma.
“Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ne ha,” rispose D’Alema, “per quanto essa sia la cocca della tremate tremate le streghe son tornate Emmabonina”.
“Giacché,” riprese Tettamanzi, “quella povera giovine non potrà esser così presto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder subito la tutrice, per quanto atea razionalista giacobina: quindi si spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui.”
D’Alema, stava come un figiciotto pauroso, che veda uno accarezzar con sicurezza una P38 in pieno ’77.

Al cardinale, che s’era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo seco il Venerabile Licio, diede di nuovo nell’occhio l’ex Pci ed ex Pds ed ex Ulivo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso per il parergli d’esser trascurato, e come lasciato in un canto, lui che fu Premier e pur burattinaio dei Servizi Segreti, e duce dell’armate italiche nelle guerre dei Bush, tanto piú in paragone d’un facinoroso così ben accolto, così accarezzato, si fermò un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: “signor Presidente, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre, tanto più se continuerete a esentare i beni immobiliari ecclesiastici da tassazioni.”


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CAPITOLO XXXIX

Il Cardinal Tettamanzi, ex titolare della cattedra genovese, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza (dal patrimonio immobiliare ecclesiastico al potere contrattuale politico con le giunte amministrative), tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello (per quanto tarchiato e grassoccio) che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, immune agli scarichi industriali ed ai tensioattivi, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume.
Le occupazioni che assunse di sua volontà furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi. Quanto all’indole, si narra ch’egli sorrise benevolo quando un apolide che sedeva a margine di un vicolo genovese in cui l’Eminenza sua stava passando lo provocò dicendo “sa che io stasera leggo i miei salmi? nel senso che io li scrivo, i salmi; viene a sentirli stasera?”.


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CAPITOLO XXXVIII

Prestigiacoma stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: “o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte da bimba bigotta sicula, voi che volevo emulare stando vergine e non svergognata nei miei impeti adolescenziali, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori vedendomi poi tra le fila del partito dei puttanieri, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner di destra; rinunzio per sempre a quel mio proposito bipartisan con il fonzarello di Santa Maria Maggiore.”


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CAPITOLO XXXVII

Intanto il Venerabile Licio, ritto sulla porta del castello, guardava in giú; e vedeva il taxi venir passo passo; e salir di corsa il Lavitola. Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse.
“Ebbene?” disse, fermandosi lì.
“Tutto a un puntino,” rispose, inchinandosi, Lavitola: “l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, telefonini spenti, nessuna intercettazione, nessun incontro: ma…”
“Ma che?”
“Ma… dico il vero, che avrei avuto piú piacere che l’ordine fosse stato di darle una cappellata, senza sentirla parlare, senza guardarla in viso.”

“Cosa? Cosa? Che vuoi tu dire?”
“Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo, a tenerla lì ferma, ‘sta bella sventola sicula… M’ha fatto troppa voglia.”
“Voglia! Che sai tu di voglia? Te e tutta la cricca che siete solo eccitati dalla coca e dalle pastigliette?”
“Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la voglia un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è piú capace di resistervi.”
“Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a voglia.”
“O signore illustrissimo! tanto tempo…! far cert’occhi, con quella sua pelle bianca bianca come morta, da biondina normanna con le efelidi, e poi singhiozzare come una giapponesina tutta in fregola…”


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CAPITOLO XXXVI

Prestigiacoma tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, – Oh – diceva: – Per l’amor di Dio lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera deputata senza portafoglio, mai inquisita per mazzette, una delle poche che a parte il mantenersi una poltrona incensando un cavaliere del lavoro di polso nei briefing coi giornalisti non ha fatto niente. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, o delle puttanelle da gestire in papponaggio per conto di qualche imprenditore, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Lasciatemi andare.
– Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno, a parte a quel polipo di Lavitola, vi toccherà.
Prestigiacoma ricadeva a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quatt’ore a causa del traffico per i molteplici cantieri sulla carreggiata, con fine lavori mai. Trasportiamoci al castello dove l’infelice era aspettata.


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CAPITOLO XXXV

Quando Karima, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì lascivamente la bocca, tirò fuori languida la lingua come a mimare appetito di deputata biondina nuda ed umida, e disse: “Sentite, Prestigiacoma!”. Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata della ex-Rubacuori. Facendo le viste di non esser contenta dell’istruzioni già date, spiegò di nuovo a Prestigiacoma la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: – fate ogni cosa come v’ho detto, e tornate presto -.
Prestigiacoma partì. Sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere un taxi fermo, e accanto a quello, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada. Andando avanti, sentì uno di que’ due (ch’era il Lavitola), dire: – Ecco una buona giovine che c’insegnerà la strada -. Infatti, quando fu arrivata al taxi, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l’aspetto, si voltò, e disse: – Bella puledrina, ci sapreste insegnar la strada di Monza, che domani c’è il Gran Premio?


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CAPITOLO XXXIV

Il castello del Gran Maestro Licio era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, come un Adolf dal suo chalet austriaco, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.


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