PD: I PROMESSI DIVORZIATI una storia che sa d’affare (con RENZI TRAMAglino)


CAPITOLO XXXIX

Il Cardinal Tettamanzi, ex titolare della cattedra genovese, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza (dal patrimonio immobiliare ecclesiastico al potere contrattuale politico con le giunte amministrative), tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello (per quanto tarchiato e grassoccio) che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, immune agli scarichi industriali ed ai tensioattivi, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume.
Le occupazioni che assunse di sua volontà furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi. Quanto all’indole, si narra ch’egli sorrise benevolo quando un apolide che sedeva a margine di un vicolo genovese in cui l’Eminenza sua stava passando lo provocò dicendo “sa che io stasera leggo i miei salmi? nel senso che io li scrivo, i salmi; viene a sentirli stasera?”.

Ora il cardinal Tettamanzi, vede entrare in sagrestia il cappellano crocifero, con un viso alterato.
“Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo! Niente meno che il signor…” e il cappellano, spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome di Gran Maestro Venerabile. Poi soggiunse: “è qui fuori in persona e cappuccio e grembiule; e chiede nient’altro che d’esser introdotto da vossignoria illustrissima.”

“Lui!” disse il cardinale, con un viso animato: “venga! venga subito!”
“Ma…” replicò il cappellano, senza moversi: “vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso… diciamo… quell’appaltatore di delitti…”
“E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare?”
“Ma che ci mette nell’impasto dell’ostia ‘sto porporato, la segale cornuta?” pensò il cappellano chiedendo venia al cielo di quel pensiero.

Appena introdotto Gelli, Tettamanzi gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse al cospetto di tanto esoterismo: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. Il Venerabile provava una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi, come se un prete leghista andasse in pellegrinaggio non a Lourdes od a Pontida ma a La Mecca.
Tettamanzi tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto del Gran Maestro il suo sguardo penetrante. E poi, “oh!” disse: “che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!”
“Rimprovero!” esclamò Gelli maravigliato, ma contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
“Certo, m’è un rimprovero,” riprese questo, “ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.”
“Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?”
Tettamanzi, con un tono solenne, come di placida ispirazione, disse allora: “cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo, che certi media, che tanti gridino da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere… che gloria ne viene a Dio? Chi siete voi, pover’uomo, che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose piu grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene?” Così dicendo, stese la mano a prender quella di Gelli.
“No!” gridò questo, “no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.” (E qui si lascia al lettore la malizia di proporre sue ipotesi).
“Lasciamo le pecorelle,” disse il cardinale: “sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con il lupo, ora”. Così dicendo, stese le braccia al collo del Venerabile Licio; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, come temendo che Tettamanzi stesse per sfilargli il cappuccio d’ordinanza, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale.
E poi, come in Sindrome di Stoccolma, prese a dire: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita, neppur quando a ogni rimpasto o qualunque formazione vincesse alle urne io comunque acquisivo controllo sui vari governi!”
E in preda a una foga incontrollata che neanche un adepto del primo grado, Gelli prese a raccontare brevemente la prepotenza fatta a Prestigiacoma, i terrori, i patimenti della poverina…

“Ah, non perdiam tempo!” esclamò Tettamanzi, e convocò un chierico domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si trovasse qualche politico. “Fatelo venir subito,” disse il cardinale.
Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla folla un: “io?” strascicato, con un’intonazione di maraviglia.
“Sua signoria illustrissima e reverendissima il cardinal Tettamanzi vuol lei.”
“Me?” disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l’uomo, o per così dire il baffetto, Massimo D’alema in persona, con un viso tra l’attonito e il disgustato, anche peggio della normale sua espressione ben più tipica, quel fare snobradicalchic progessista europeista.

D’Alema giunse al cospetto d’Eminenza, fece una riverenza, e disse: “m’hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato; forse cercavate Delrio…”
“Non hanno sbagliato,” rispose Tettamanzi: “ho una buona nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra collega di pastrocchi o come amate dir voi inciuci, insomma accordi bipolari a fin dell’esercizio costante del potere, che avrete pianta per ismarrita nella diaspora post condanna del Berlusca, la a noi sempre cara Prestigiacoma, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna, anderete, dico, a prendere quella vostra collega d’emiciclo, e l’accompagnerete qui.”


(continua…)



(c) Apolide Sedentario e Manzone Ramingo 2014
DOWN DOW FOREVER
chi non si abbona a IL NUOVO MALE (contiene FRIGIDAIRE) è sciemo

 

 

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