Categoria: ‘I Promessi Divorziati’

CAPITOLO XXIII

C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte che smentiscono le leggi fasce di Giovanardi e ripristinano i referendum antiproibizionisti. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: – c’è qui vicino la casa di Maroni: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco -. Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piùttosto che l’accettazione d’una proposta. – Da Maroni! da Maroni! Via Bellerio! Via Bellerio – è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto.
Lo sventurato sassofonista leghista stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e attendeva, con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli sovrastava. I suoi gorilla in camicia verde della Guardia Padana, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba; e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta. E l’Ansa riceve tosto una nota di sdegno contro i blackbloc infiltrati nel corteo.


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CAPITOLO XXII

Nell’assenza del sindaco Pisapia, che comandava l’assedio ai centri di detenzione dei clandestini per denunciarne la somiglianza davvero inquietante ai lager, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Roberto Maroni. Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere felicità e serenità (per quanto illusorie ed artificiali) a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò gli psicofarmaci al prezzo che sarebbe stato il giusto, anche per mettere a tacere i precedenti scandali degli assessorati e del San Raffaele.
La moltitudine accorse subito alle farmacie, a chieder pasticche al prezzo calmeriato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i farmacisti strillassero, non lo domandate. Il popolo della notte e della movida, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta, assediava gli smartdrugstores di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava.


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CAPITOLO XXI

Renzi fece la strada che gli era stata insegnata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era coca. «Grand’abbondanza», disse tra sé, «ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Che c’è la crisi. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna». Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. «Vediamo un po’ che affare è questo», disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un involucro di cellophane, come un pane, bianchissimo. – È una panetta di bonza davvero! – disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: – così la seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierla, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? «Lo piglio?» deliberava tra sé: «poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò, al massimo aumento l’iva dello 0.5 % e ci vuol niente a recuperar contante». Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò a assaggiarla; e si rincamminò, desideroso di chiarirsi che storia fosse quella, o se in sua assenza forse il parlamento avesse legalizzato non tanto i joint, ma proprio tutto quanto, in una sorta di modello Zurigo, lui che parlava di europeismo e non certo di chiusura svizzera della circolazione della manodopera.


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CAPITOLO XX

Dell’Utri s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente Corona a ***, da Karima, per aver più chiare notizie di Prestigiacoma, e sapere se ci fosse da tentar qualche cosa, e anche approfittarne per rubare qualche scatto all’ex ninfetta di regime da pubblicare su Chi. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele e gli diede l’ordine che aveva premeditato.
– Don Marcello… – disse, tentennando, Corona, che a tentennar si sa non ea capace, sbruffone sempre, guascone, ma di fronte a un protettor di tal sorta – Se potesse mandar qualchedun altro…
– Come?
– Dottore illustrissimo, sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso: e… Qui son sotto la sua protezione; i birri mi portan rispetto, e qualora non lo facessero c’è sempre da allungare una mazzetta; e anch’io… è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto… li tratto da amici.
– Che diavolo! – disse Dell’Utri: – tu che ti chiavi certe manze croate o argentine mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di una sciacqua?
– Dunque, – ripigliò francamente Corona, messo così al punto, – dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, furbizia di carpa cieca, e vista d’aquila per immortalar l’attimo, e son pronto a partire.
– E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio… Liguori, e Gianni Sperni; e va di buon animo, e sii Corona. Che diavolo! Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’ birri fosse ben venuta a noia la vita, e il rispetto delle folle di gagnette e di attempate spettatrici di Uomini e Donne, che non perdonerebbero lor l’importunarvi.


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CAPITOLO XIX

Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella scompigliata notte, tornavano i paparazzi dell’agenzia di Corona alla villa di Dell’Utri. Egli camminava innanzi e indietro. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte rimuginando tra sé e sé che in quanto appunto imposte la sinistra avrebbe potuto tassarle, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, che si sentiva quasi come ai tempi che s’aspettava guardinghi che arrivassero i carichi di biada mista a bonza in quelle scuderie a gestione Mangano.


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CAPITOLO XVIII

L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata Karima di mentire (la Boccassina ci vorrebbe in questi casi, ma sarebbe stata ricusata): e, sentendo risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza o del fatto che si potessero tenere riunioni di Olgettine per concordare le linee processuali, si rallegrò con lei, e si licenziò.
Noi dunque non narreremo della precedente Karima Rubacuori in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti osceni. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell’animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori mestruali e di fluttuazioni ormonali, d’amenità de’ luoghi, e di varietà degli oggetti a forma fallica (dai dildi neri in stile sadomaso delle performances nelle discoteche alla statuetta di Priapo che girava alla tavola del Cavaliere). Talvolta la pompa ne’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a se stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piùttosto che tornare all’ombra fredda delle prospettive da cameriera stagionale.


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CAPITOLO XVII

Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente (o ancor meglio potremmo dire hard-ente) e inesperta di Karima. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Le cifre e le virgole di quella nota spese sciagurata, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche delle sinistre, o di chi sa altri.


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CAPITOLO XVI

Prestigiacoma diventò rossa, e abbassò la testa. Un po’ come avvenne dopo il caffè della cena nella Villa che dicemmo, quando il padrone di casa disse “adesso possiamo scendere un po’ nel cabaret e fare un po’ di elegante burlesque pe’l dopocena”.
– Deve sapere, signora Karima… – incominciava Emmabonina – questa giovine, signora illustrissima e nipotina di vip nonché figlioletta del papi, le vien raccomandata da Papa Francesco. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de’ gravi pericoli; come a Lei stessa accadde quella sera in Questura a Milano; e ha bisogno, per qualche tempo, d’un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand’anche…
– Quali pericoli? – interruppe Karima. – Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache fetish, altresì dette nun, ci piace di sentir le storie per minuto.


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CAPITOLO XV

Taciuto sarebbe per segreto istruttorio il nome del paese dove Papa Francesco aveva indirizzate le due donne. Le avventure di Prestigiacoma in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente. Ma non vien qui nominato il paese; ch’era un borgo antico e nobile, e che ci passa il Lambro; e infatti Emmabonina ivi arrivando narrò a Prestigiacoma di tal concerti che si tenevano al Parco, quand’essa era pischella; e che cannoni.
Deduciamo che fosse Monza senz’altro. I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il conduttore entrò in un’osteria, e 1ì, come pratico del luogo, e conoscente del padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i ringraziamenti, Renzi tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello, al pari del barcaiolo, aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante. E Renzi pensò “con quest’ondata di cattolicesimo pauperista la crisi la si risolve col regalo, c’è da aumentare gli spazi in tv a Telethon, ci finanziamo l’Asl di Siracusa se passa il logo in Rai durante Domenica In”.


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CAPITOLO XIV

D’Alema, il quale, appena accortosi della fuga dei rottamatori innamorati, s’era ritirato dalla finestra e dai ruoli politici di rilevo, e l’aveva richiusa (la finestra; per i ruoli politici attendeva pur sempre un presidenzialismo riformista), e che in questo momento stava a bisticciar sottovoce con la Melandri, che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, si sentì chiamare a voce di popolo, per il baccano ch’era stato udito nei dintorni in quella zuffa notturna da aula parlamentare, e dovette venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d’averlo chiesto.
– Cos’è stato? – Che le hanno fatto? – Chi sono costoro? – Dove sono? – gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto. Che gli pareva d’esser ancora appunto nelle vesti d’un ruolo istituzionale attivo, tipo quantomeno sindaco di Gallipoli.
– Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non c’è più niente: un’altra volta, compagni: vi ringrazio del vostro buon cuore -. E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra.


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