SU LA TESTA, IN ALTO I JOINT Apolide Sedentario al Festival "Su La Testa" contiene: INTRAVISTA ESCLUSIVA A PAOLA TURCI

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0. INTRO:
La provincia non fa testo. Al più fa cronaca nera. Figlio di un tenco minore e minuscolo, si svolge al Teatro Ambra in quel d’Albenga il Festival Su La Testa. Piccolo evento locale, che contesto – stavolta con pregiudizio, vedrò dopo – perché sui manifesti viene dato calendario che cita musicisti foresti (detto in ligure) senza citar che sul palco ruoteranno anche musici autoctoni. Tra i nomi di rilievo Paola Turci e Gianmaria Testa (omonimo del festival).
La piana ingauna era una palude, e una palude resta. Ci coltivavano canapa, poi basta, la canapa fu dichiarata illegale, e ne sparì. La palude rimase, invece, pure dopo che gli avi miei bonificarono a zappa, rendendo l’acquitrino campi fertili di fruttuosi quattrini. Sparì la melma, ma ancor più s’instaurò la palude mentale.
Allora dico: nel nulla più totale che Albenga è in quanto alle Arti, cazzo, per una volta che si fa un evento, oltre ai nomi importanti va invitato anche quel sotterraneo ma esistente giro di artisti del luogo. Scopro solo giungendo nella sala che apro porte già aperte, poiché loro (gli organizzatori) son proprio quelli che io pensavo esclusi.
Maestro del paradosso quale sono, ho l’occasione buona: fare un pezzo in cui contesto chi viene contestato per aver escluso se stesso da un contesto. Iperbole contestataria. Bella storia. Chapeau.

1. SULLA TESTA: disquisizioni su una parte del corpo che contiene quello che non si usa più
Intitolo così, come il paragrafo, il mio manifestino di protesta.
Sul quale da un lato rendo manifesta l’uscita del mio disco (maRINO GAETANO, noiseville.org), mentre sul verso verseggio col vetriolo per invocare spazi per coloro che fanno Arte non manageriale, dunque restano fuori da ogni scena, pure se provinciale. E il testo è questo:

“E dove l’aria in fondo tocca il mare lo sguardo ritto può guardare”, cantava il Banco del Mutuo Soccorso in “La conquista della posizione eretta”.
Tenendo attentamente su la testa ci si avvedrebbe del dintorno, almeno… Ben prima di vedere i Saraceni dalle Torri, prima di dirottarli su Ceriale con scuse della madonna, prima di convocare cantautori foresti, tenendo su la testa gli Albingauni avrebbero potuto veder che nella zona i cantautori ci sono, eccome, e pari a quelli che si invitano ai festival. Oltre a me, che Animale son tale da stupirmi se quelli dello Zoo (ditta organizzatrice dell’evento) non  han percepito il mio olezzo di bestiaccia, faccio notare che io (che pur son schivo) solo di Albenga ne conosco 4, ed in provincia più di una decina. Nomi che sono esclusi dalla lista del festival “Su la testa” in questione, a parte Zibba.
E’ che nel mondo attuale il pianerottolo non sai più chi lo abita, e invece di chi vive in una Casa chiusa di Cinecittà segui in tv persino i tarzanelli, come se fosse un parente, tua sorella, mentre del prossimo tuo, del tuo vicino, nemmeno più invidi l’erba, a meno poi, ponendo vivi ad Erba, conoscer dalle cronache gli Olindi.
Al festival dell’Ambra, quantomeno, gli Ingauni sanno che l’Ambra è il loro cinema, e non si chiama Angiolini, e che Angiolino era Viveri Ma non per far campanilismo alle Tre Torri in epoca elvetica contro i minareti, però talvolta – aggiungendo un posto a tavola per qualche amico in più che vien da fuori – i posti ai cantautori di riviera si potrebbe tenerli.
Grazie prego scusi tornerò.

Solo che appena entrato nella sala dalle porte del retro (che conosco, essendo già andato a intravistare Hendel nello stesso teatro) nel pomeridiano lavorìo dei tecnici noto che i tecnici sono appunto i soliti musicisti del giro della zona. Il solito fonico Mazzi, e (proprio il colmo) il batterista stesso del mio disco, il Maurizio De Palo che si presta come assistente di scena. Non sono solamente a casa mia: addirittura sono capitato nella mia stessa sala d’incisione…
Insomma il pretesto frana, e resta solo a mo’ di motivazione per avere schiodato il culo ed essermi recato sull’evento.
Al culmine del colmo, il “direttore artistico” del tutto è quel Davide Geddo che citavo sopra il mio volantino come “uno dei 4 cantautori” dell’Albenga in questione. Al quale espongo la mia posizione, a questo punto surrealmente scomoda: “Io ti contesto in quanto direttore perché non hai invitato il cantautore che tu stesso sei!”. Lui, che è uomo bonario (ma di talento reale: vi segnalo un suo brano che analizza “Dove guarda il cantautore quando canta”, lunga suite imperiale d’autoriale spessore) si schernisce dicendo di non esser capace a ritagliar per se stesso promozioni nelle da lui organizzate situazioni. Esaspero il paradossale: “Ed infatti fai male: se sei bravo non rubi niente a nessuno, anzi farcisci di ulteriore ricchezza la rassegna, ché pretenzioso ha da esser con ragione chi ha la ragione dei fatti, la palese qualità in ciò che fa”. Lui nicchia e se ne va dietro i casini dell’organizzazione. Ma ribadisco: pudore abbiano quelli che non hanno valore, ma chi è invece capace mai abbia tema di farla fuori dal secchio.


2. HAI MICA QUALCOSA DA FUMARE, ovvero INTRAVISTA ESCLUSIVA A PAOLA TURCI
L’ingauna piana era un canapaio, nell’epoca romana, e poi nei secoli, sino alla proibizione. E caso (e percaso punto org) vuole che Paola Turci intitolasse tempo fa una canzone  “Qualcosa da fumare”.
Ahi maria chi mi manca sei tu. Invece Paola c’è, e ho preparato per lei una domanda in solito stile cut-up dei testi suoi.
La Turci è una cantautrice degli ’80, l’epoca dei Barbarossa e dei Carboni, dopo la grande stagione dell’impegno. Generazione né carne né pesce, frasi d’ammmore mischiate a vaghi spunti sociologici, poi anche quelli elisi per restare al solo lato emo. Da Rino Gaetano a Roma Puttana ai Dari, passando tutti prima o poi da Sanremo.
Proprio a Sanremo la Turci ebbe vetrina cantando “Bambini”, generico medley di buone intenzioni sugli infanti. Ero pischello, e una giovine cantante della zona proponeva la cover di “Bambini” nelle sagre paesane. Il chitarrista che la accompagnava diede una volta forfait per raffreddore, e la cantantina in questione mi richiese un accompagnamento di chitarra per una sua esibizione ad una sagra di collina. Ricordo che il brano era in re, e che nonostante il mio scarso schitarrare fui in grado di suonare facilmente quel pezzo elementare, né brutto né eccezionale.
Senza infamia né lode, Paola Turci, da autrice. E più che per andarla a intervistare mi reco a “Su la testa” per potere far girare la voce del mio disco tra i musicisti e il pubblico locale.
La sera dopo canta invece Testa, cantautor ferroviere, che è un testina, ma osannato dai critici. I testi di Testa sono così asfittici che non c’è nulla su cui cutuppare, per cui tra le tre sere di ‘sto Festival scelgo quella di Paola, che in un gioco al ribasso quantomeno qualche cosa ha da dire.
La Turci giunta nel cinema-teatro non fa la star, non si imbosca in camerino. Paola è struccata, non vestita da figa, porta occhiali modesti, e quasi mesta si accomoda tranquilla sopra una delle poltrone di sala, ascoltando altrui soundcheck mentre digita sul suo telefonino. Tanto gentile e dimessa Paola pare che quando la vado a approcciare, su indicazione di uno che mi dice “guarda che Paola è quella là di spalle con i capelli scuri” prima di chiederle “scusa, ho una domanda per te” la guardo un po’ e non mi sembra lei, ma una generica ingauna, una paesana. Invece è proprio lei, tant’è che quando terminano il soundchek quelli del gruppo prima s’alza dalla poltroncina e va sul palco, chitarra acustica in spalla, con mio batterista di spalla a metter cavi e monitorare i monitor di scena.
Preparo il taccuino alla pagina in cui ho pronta la mia domanda e attendo che lei scenda. Lei suona tutto un brano, e spiega al fonico il suono di chitarra che desidera, né troppo corposo né stridulo. Terminato che ha il brano, il poco pubblico degli addetti ai lavori le fa un plauso. Paola, scendendo dal palco, quasi timida, dice: “Grazie, è difficile davvero cantare da sola di fronte a tre persone”. E qui intervengo, con fare colloquiale, dicendole: “Certo, Paola, che è difficile, sapessi io che lo faccio spesso assai, di suonar per nessuno…”. Paola Turci mi guarda, e adrenalinimbarazzatamente fa cenni d’apprezzamento. Ai quali ribatto chiedendo il poco tempo di una risposta ad un semplice quesito, e lei mi concede l’assenso.
Attorno a noi si radunano i ragazzi (giovani, volonterosi, volontari, encomiabili) dello staff. Io, che a far perder le staffe son maestro, inizio il vespro del “vadan pure gli ospiti foresti, ma spazio va dato anche ai bravi e onesti musicisti locali”. E Paola che sente il discorso si risente, e dice che mica ha imposto di cantare, e che è solo stata invitata. Le dico: “Infatti sei la benvenuta, ma ribadisco che – aggiunto un posto a tavola, il tuo – gli altri posti del desco sono appunto per quelli che alla tavola in questione stanno seduti essendo della zona”. Poi le chiedo attenzione per quell’attimo della domanda per lei.
Apolide Sedentario:
“Paola, quest’intravista non va in diretta, io non sono la tv, io sono anarchico, sono dissidente verso ogni stato di calma apparente, ma disarmato mi cullan da otto anni nella guerra mondiale occidentale, e in quanto autore sono assassinato e desaparecido, rifiutando la Siae ed il mercato, per cui grazie al cazzo, dirai, tu che ringrazi dio mentre il danaro ricostruisce le Chernobyl. La propaganda alla sicurezza ha fatto in modo che il controllo è ormai sempre più evidente, disorientando le menti, così magnetico. Comunque io, pur bianco, sembro un nero, nel senso che ho i coglioni, sono satiro, e cogliono il Potere. E maledetti i soldi, quindi, Paola, hai mica dietro qualcosa da fumare?”
Paola Turci:
“No, guarda, ho già fumato tutto! E poi ho smesso.”
Apolide Sedentario:
“Ma me lo dici perché hai smesso, o me lo dici per non farti sgamare con la pubblicazione del mio articolo?”
Paola Turci:
“No, è vero che non fumo più. Ma se fumavo ancora te l’offrivo.”
Apolide Sedentario:
“Facciamo che ti credo. Ma a parte la provocazione mia finale, hai da aggiunger qualcosa sui parecchi argomenti che ho usato nel quesito?”
Paola Turci:
“Ho da dire che citi molto. E che la citazione la fanno le persone che ti sostengono, e ti parlano attraverso le tue stesse canzoni, tu lo hai fatto, e mi è piaciuto molto il come hai fatto, lo hai fatto molto bene.”
Apolide Sedentario:
“Io lo faccio per responsabilizzare. L’autore scrive cose, io gliele giro in culo, e se lui non ha il culo che gli puzza può appunto non doversi vergognare. Ma se scrive cazzate, lo costringo a prenderci una facciata. Anch’io sono autore, e penso quando scrivo, perché se qualcuno mai venisse a fare come me, che rigiro la frittata, i miei testi reggano sempre all’urto.”
Paola Turci:
“E fai bene. Sai, quando mi hai detto che eri anarchico mi sono spaventata, perché sono contro la lotta quando è armata, ma seguendo la tua domanda ti ho capito: tu sei un anarchico giusto.”
[La presentatrice Denise della serata, che sta leggendo il mio manifestino distribuito ai soli addetti ai lavori, dice alla Turci: “Giusto lo è per forza, si chiama pure Giusti di cognome…”]
Apolide Sedentario:
“Guarda che io sono armato, anzi armatissimo. Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia.”
Paola Turci:
“E infatti anch’io sono armata fino ai denti, ma con le stesse armi che usi tu. Io anche sono anarchica, ma anarchica pacifista.”
[pausa di sospensione nella sala, nel mentre trascrivo quanto Paola dice]
Paola Turci:
“…anche se vado a Sanremo…”
Apolide Sedentario:
“Ma brava, grazie Paola, che te lo dici da sola. Potevo usarlo ad argomentazione per farti il contropelo, ma sarei andato sul facile. Però che tu me lo dica, che tu te lo dica da sola, ti fa onore.”



3. SI POTREBBE ANDARE TUTTI ALLO ZOO MA IO NO?
“Zoo” è la denominazione dello staff che organizza “Su la testa”. Attorno a Davide Geddo cantautore. Regazzi di buoncuore verso le arti.
Essendo essi venuti a circondarci, a me e alla Turci, durante l’intravista, congedata che abbiamo Paola, resta questa crew surreale di locali, dando inizio ad un clima colloquiale.
Così conosco Marco Orticultore. Albenga è una piana: geomorfologia amena,  qui in Liguria. Approfittando a fini di profitto del terreno spianato, gli albingauni si sono arricchiti da generazioni con sfruttamenti intensivi del terreno. Al punto che fertilità si è fatta fottere infertilmente generando il niente. Da cui la conversione dei terreni in lunghe spianate coperte con teloni su cui vengon poste ossessive innumerevoli file di vasi di plastica, poi riempiti di “terra” (in realtà merce chimica) venduta dalle multinazionali, e seminati a fiori o ad aromatiche erbe ogm letali.
Invece Marco è ancora Orticultore, nonostante sia giovane. Mi dice che è contro i vasetti, e che coltiva pomodori cuoredibue e zucche trombette (zucchine di varietà che si ritrova soltanto in questa zona). Mi sdilinquisco in encomii e apologie: ragazzo mio, ti ringrazio in quanto umano d’essere degna progenie dei tuoi nonni, che zappavano a mano per procurarsi cibo, e non danaro con cui comprare i Suv.
Marco mi spiega che per far “Su la testa” non solo per loro non v’è profitto alcuno, ma che ovviamente pure ci rimettono, tra telefonate, benzina, spostamenti, casini. E lo si vede quanto sia sincero: Marco è ragazzo di aspetto genuino come le sue zucchine.
Quanto alla Turci, Marco fa notare: “Durante le nostre riunioni per decidere chi invitare quest’anno ci siamo posti il fatto che la Turci fosse andata a Sanremo, perché non vogliamo dare questo spazio a chi già sceglie gli spazi sovraesposti, ma poi abbiamo risolto la questione pensando che lei ha accettato la proposta di mettersi in gioco sola sopra al palco, solo chitarra e voce, in un piccolo teatro di provincia, e abbiamo premiato il coraggio”.
Orticultore sottile, Marco, pure. Contadino: scarpe grosse e cervello fino. Letterale.
Sodale di Marco è il grafico Gabriele, il quale ascoltando il nostro disquisire manifesta il sentore di sapere per quale testata io stia prendendo appunti. Gli dico “turistipercaso”, e si entusiasma: “Turistipercaso? Ma vah? Io lo conosco!”. Gli dico di frenare gli entusiasmi poiché è probabile pensi che io intenda il sito della rai. E invece giammai: lui mi dice “no, io intendo proprio quel blog assurdo, dove c’è uno che scrive robe fuori”. Al che mi stupisco io, e gli dico: “Cazzo, allora è il mio sito davvero!”. E lui: “Ma non ci credo, sei tu! Sei tu che scrivi tutte quelle cose che non si possono scrivere! Ma non ci credo, mai avrei detto un giorno avrei incontrato quel pazzo!”. Il fatto è in effetti strano, e incuriosisco assai su come lui abbia trovato Apolide nel magma immateriale virtuale. Mi spiega che gli son stato segnalato da un suo amico di feisbuc, e lui è venuto a leggermi svogliato, ma quando ha scrutato il primo dei miei post – sbalordito dalle argomentazioni – si è andato a divorar tutto l’archivio in un botto. E che nell’estremo hardcore di quei miei scritti è d’accordo soltanto “per 6 brani su 10”, ma anche nei rimanenti quattro casi (percaso punto org) il come dico le cose, pur difformi al suo modo di vedere, è un piacere nel leggerlo.
Siamo al decimo anno dissidente di turistipercasopuntoorg, e Gabriele è il primo che per caso (punto org) senza conoscermi prima adesso abbina i miei testi virtuali all’individuo reale.
Tra quelli che girano in sala c’è un tipo che d’acchito, per il suo aspetto atipico, mi è facile individuare: il cantautore Zibba.
Mister Zibba è da anni sulle scene “alternative” insieme a gente tipo Mister Puma e tutto il giro “crossover” di riviera dagli anni ’90 in poi. La musica di Zibba mi fu esposta da una comune amica. Tempo che venni a saperne l’esistenza, e sua emittenza il biscione me lo espose anche su Talent1, in un passaggio notturno alla tv.
A Talent1 c’è una tipa (Desiderio) che mentre bivacco di notte i miei spuntini con sottofondo di zapping e video scemi di inutili microclip di ItagliaUno dimena il corpo nel mentre all’angolino dello schermo campeggia scritta la categoria, che per Desiderio è “Ballo”. Dovevano scriverci “balla”, nel senso che è una balla che sia un ballo: piuttosto si tratta di performance da night. Ma essendo appunto un dimenaggio erotico, e essendo il porno garanzia di audience e introiti da pubblicità, la selezione dei videoclip da mettere nella scaletta della trasmissione finisce spesso ad evere l’inserzione delle di lei troiaggini sciachire.
Invece Mister Zibba lo passarono per una metà scarsa di canzone, senza ulteriori repliche. Zibba non è un TalentUan, ma un Talentone, nel senso che ci ha la sua stazza. E a andare a ItagliaUno è stato scemo. Ma per il resto è un genuino quanto me. Per cui ci sta un po’ di conversazione, e ce la si chiacchiera un po’ sul suo locale rockbar, sulle persone del giro, su ‘sto festival, e sul fatto che lui non ha pudore ad alternare sul palco del suo bar gente nota e che viene da fuori con gruppetti locali, senza farsi mancare le occasioni per proporre dal vivo anche se stesso. Risposta, questa, alla disquisizione che fa da casus belli a questa mia partecipazione al festival: se quello che sai fare lo fai bene, aggiungersi in calendario nella propria stessa manifestazione non è eccesso di ego, ma contributo autoriale.
Morale della favola: ponendo che tra autori si è colleghi, ci fossero collegamenti non virtuali tra autori del precipizio occidentale potremmo alzare la testa tutti insieme e mozzare le teste dei cialtroni, anziché fare i cani sbalorditi al suono della voce del padrone che esce dal grammofono. Povera patria, povera provincia, la primavera tarda ad arrivare, anzi qui è inverno pieno, e mi si è pure rotta la cerniera del giaccone, mentre fumo la siga colloquiando nel cortile con Zibba…
Bivacca in sala un gruppetto di minori. Le regazzine ammazzano l’attesa del concerto (cui niente gliene frega) mostrandosi le foto ai cellulari delle “orge” che fanno (testuale, dai loro commenti) e dei culi nudi propri e degli amici (“che culo scuro che ha!”, “ci credo, è negro”!). Due dei maschietti commentano tra loro che “quella non me la vuol dare” ma “quell’altra basta che glielo chiedi e la dà eccome, quella scopa da quando aveva undici anni, si scopa pure a suo padre”. Il tutto col tono come si parlasse di “coso ha comprato lo scooter”. Giovani leve: su la testa di cazzo? I ragazzi dello zoo di belino.

4. THREEFINGERSGUESTAR
Da ere geologiche non andavo al sabato in un locale con musica. Ma il sabato prima Gianco della nostra Spremuta Ditta nonché Trio Le Scanno mi aveva portato a sentire un duo di amici suoi nel luogo in cui s’andava anni fa a svernare appunto il sabato, nell’anticamera ai cessi che divenne un controlocale underground (peggio: underwc…) con personaggi del calibro del buonanima Tex.
A “Su la testa” ritrovo ambedue i tipi del duo, che in quanto “vincitori” del “concorso” su “chi suona a Sulatesta” sono in attesa di provare i suoni. Non vado mai a ascoltare nessuno. E loro due li sento per due volte in una settimana. Perciò mi introduco: “Sono il vostro fan più fedele” (intendendo “fetente”). Accettano il fendente amabilmente, e ci mettiamo a parlare.
Sono i Threefingersguitar (“tutto attaccato”, mi dice Alessandro, il chitarrista arrangiatore elettrico delle canzoni scritte da Simone).
Critico solo il che usino l’inglese (“Io non ci ho cazzo di stare a recepire una lingua straniera, mentre ascolto, e poiché a me dei brani m’interessa il testo più che la melodia eventuale, se non scrivete i testi in itagliano io non vi sto a seguire, e ascolto solo il genere”). Simone, l’autore, mi dice che la scelta è per la sonorità. Faccio notare che questo è il bieco alibi della quasi totalità di chi usa l’inglisc, ma che ci sono prove comprovate si possa usar l’idioma anche itagliota sulle sonorità di quassitipo, solo sapendo giostrarsi tra le sillabe con l’eclettismo necessario appunto a chi si dica Autore, e cito a esempio il Banco del Mutuo Soccorso. Simone un poco ammette e un po’ dissente.
Sentendo in seguito il loro cd demo (che mi regalano, grasssie), capisco quanto “brit” siano nel suono (oltre che nell’aspetto, e in questo caso viva la coerenza complessiva del minimale complesso), per cui effettivamente brit con brit (purché non sia Britti…) ci sta.
L’immaginario è di tipo pinkflydiano, pur retto soltanto da una chitarra ritmica con escursioni elettriche, ed il supporto di solo qualche loop. E pinkfloydiane, in coerenza con il suono, anche le argomentazioni (“No way out from the room”, rediviva versione dell’inquietante “there’s everybody out of there?”, o anche appunto “Enemy in the mirror”, cito tra i loro sei brani).
Il cd è nero. Non ha il bollino Siae.

5. CHIOSA
Ovviamente diserto la serata, nel senso che, terminata l’intravista e la comunicazione tra gli artisti, nel mentre il gestore apre la vetrata dell’ingresso principale, io pur essendo già dentro (e dunque immune dal pagamento biglietto) me ne vado. Che non si dica che scrocco. Neanche al Tenco, io, mai. Potrei vedere aggratis quassi performance, ma se non è gratis (nel senso anche per gli altri) io non lo faccio mai. Io non entro dal retro per schivare la cassa alla quale piuttosto già in passato ho fatto autoriduzioni anarcostaila. Passo da dietro perché “intravistatore” è chi va a metterla dietro agli impostori, chi va a denudare i re. Qualora poi i re in questione sian ferrati nel gestire il colloquio, buon per loro. Ma non son lì per scroccare i loro live. Anche perché il muratore non va mica ad osservare un altro muratore mentre tira su un muro: o si fa il muro insieme (il live insieme) o ognuno i cazzi suoi. Infatti me ne vado dal teatro mentre il teatro apre i battenti al pubblico. Né nobile né snob: oltre gli estremi. A testa alta.
(colonna sonora: voglio vivere cosiiì, la luna in frooonte, e feroce canto autorialmeeeente…)





(c) Apolide Sedentario 2009
DOWN DOW FOREVER


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