Vendola: Carlo Giuliani eroe come i due giudici_9

Il presidente della Puglia: pronto a sfidare Berlusconi ma prima spariglio i giochi nel centrosinistra

  ROMA — Vuole crescere, Nichi Vendola. Vuole ricostruire un’alleanza che sfidi la destra e, soprattutto, vuole vincere. Obiettivo dichiarato, il posto di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Ma prima deve «sparigliare i giochi» nel suo campo, quello di un centrosinistra «asfittico, che non ha saputo interpretare la crisi del mondo, dell’Europa e dell’Italia». E, forse, anche maneggiare con maggiore attenzione le tragedie recenti del nostro Paese, visto l’accostamento a dir poco ardito tra Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani. Da Bari il presidente della Puglia suona la sveglia al Pd. Riunisce in un camping sul mare duemila ragazzi e si lancia alla conquista della leadership nazionale. Si candida alle primarie, se e quando saranno. Sfida Bersani e mette agli atti il nome del primo avversario del Cavaliere. Tre giorni di dibattiti, incontri e seminari al villaggio turistico Baia San Giorgio di Bari per gli stati generali delle «fabbriche di Nichi» e adesso l’autocandidatura è ufficiale, «il cantiere dell’alternativa» è aperto. Il leader di Sinistra Ecologia e Libertà si butta in pista con largo anticipo e sfida i Ds, gli amici-nemici che, in primavera, gli scagliarono contro la candidatura dalemiana di Francesco Boccia alle primarie per la corsa regionale. Attacca quella sinistra che non sa declinare la parola «cambiamento» e che coltiva «simpatia per la sconfitta». Chiama a raccolta la sua gente, i suoi giovani e li sprona a «vincere senza avere paura di perdere». E pazienza se, per un attimo, gela la platea accostando le sue «fabbriche» ai meeting riminesi di Comunione e Liberazione. Un piccolo inciampo, nulla al confronto dell’accostamento tra Carlo Giuliani, il giovane attivista no-global ucciso nel 2001 durante gli scontri del G8 e i magistrati massacrati dalla mafia. «Vincere per le donne e gli eroi dei nostri giorni — declina il suo pantheon Vendola — come Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani». L’«eroe ragazzino», così lo definisce, ucciso da un carabiniere a Genova, quando «una generazione perse l’innocenza e fece i suoi conti con la morte». Chiunque sarà, il candidato premier del Pd dovrà vedersela con lui. «Le primarie non sono una minaccia per il Pd o per il centrosinistra — avverte, sapendo di toccare un nervo scoperto dei democratici — sono una minaccia per la cattiva politica, sono la riappropriazione da parte di un popolo di scelte fondamentali». E perché proprio lui? «Perché io sono voi quando non sopportate il centrosinistra avendo la speranza di un mondo diverso — risponde rivolto ai ragazzi che lo ascoltano —. E perché a me è accaduto due volte di dover sconfiggere il centrosinistra per sconfiggere il centrodestra». Ce n’è anche per il governo e per la nuova P2. Le «uova di serpente che furono covate da eversori di ogni tipo», le «tentacolari ramificazioni» della mafia dentro «i gangli vitali dello Stato», la «processione di camorristi e massoni deviati che accerchia Palazzo Chigi»… Il centrodestra è in crisi, sfida gli avversari Vendola e si mette in cammino «fuori dal palazzo, lungo le traiettorie delle vie popolari». Ma la soluzione non è un governo tecnico, dice a SkyTg24: «Abbiamo bisogno di liquidare il berlusconismo e di tornare alle urne». Il programma? Bellezza dell’ambiente, pressione fiscale «più equa» e redistribuzione delle risorse. E l’avversario dei sogni? «Gianfranco Fini».

2 Comments

  1. 99 Posse scrive:

    99 Posse
    Genova è un buco nero. E’ così che ce la ricordiamo. Giornate di follia e ferocia che a distanza di nove anni facciamo ancora fatica a metabolizzare. Cariche violentissime, manifestanti con la testa spaccata, afa e sangue ovunque, pestaggi a Bolzaneto e alla Diaz. A Genova c’eravamo, avevamo suonato due sere prima con Manu Chao in un …clima che ricordava una grande festa. Quel giorno invece eravamo alla testa del corteo proprio dietro gli scudi protettivi e c’è una bellissima fotografia di Luciano Ferrara che ritrae qualcuno di noi. Al centro c’è una figura esile, indossa una canottiera bianca, un passamontagna e un rotolo di scotch al braccio sinistro. L’abbiamo visto più volte andare su e giù nelle prime file del corteo, mentre Militant A di Assalti Frontali spingeva un carrello da supermercato nel quale c’erano rudimentali sostanze antilacrimogeno. Non sapevamo ancora che sarebbero state inutili, un po’ di limone non può nulla contro il gas CS che è un’arma da guerra. Del resto non sapevamo di essere in guerra e nemmeno che quel ragazzo magro in canotta e passamontagna, che avremmo poi scoperto essere Carlo, lo avrebbero ammazzato come un cane sotto un torrido sole di luglio. A Genova c’eravamo e abbiamo portato a casa la pelle. A Genova c’era anche Massimiliano Amodio, un nostro vecchio compagno con un problema congenito alle gambe. Anche lui ha portato a casa la pelle, ma solo dopo essere passato per il girone infernale di Bolzaneto. Leggere il suo racconto da veramente il senso di quelle giornate durante le quali “democrazia” è stata una parola del tutto priva di senso.

  2. Rosario scrive:

    «Io, pacifista nell’inferno di Bolzaneto»
    Di Rosario Dello Iacovo

    Bolzaneto

    È ripartito, con la requisitoria dei pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, il secondo maxi-processo per i fatti del G8 di Genova: quello per le violenze sui manifestanti avvenute a Bolzaneto. Quarantasette gli imputati: sedici agenti penitenziari, quattordici poliziotti, dodici carabinieri e cinque medici. I capi d’accusa sono numerosi: abuso d’ufficio, lesioni, percosse, ingiurie, violenza privata, abuso di autorità, minacce, falso, omissione di referto, favoreggiamento personale, oltre che violazione della convenzione internazionale per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. L’ultima udienza è prevista per il 20 maggio, la sentenza dovrebbe arrivare entro il mese di giugno.

    Massimiliano Amodio è uno degli arrestati. Napoletano, trentottenne, molto noto negli ambienti della sinistra cittadina. Negli anni 80, iscritto al liceo Labriola, è stato uno dei personaggi di spicco del coordinamento studentesco della zona flegrea, ha poi partecipato alla stagione della “Pantera” e dei centri sociali. Suo padre, Francesco, è il portavoce dei Cobas in Campania.

    A Genova ha vissuto un’esperienza terribile, sia sul piano psicologico che fisico. Massimiliano, infatti, ha un problema congenito alle gambe per il quale è già stato operato e dovrà affrontare altri interventi in futuro. Nonostante l’evidenza della sua diversa abilità non gli sono state risparmiate umiliazioni e violenze, come lui stesso ci racconta.

    Sei stato arrestato nel corso degli scontri?

    «No, sono un pacifista militante. Non ho mai partecipato a scontri, né a Genova, né in altre occasioni. L’arresto è avvenuto sabato 21 luglio, il giorno dopo la morte di Carlo Giuliani, nella scuola in Via Re di Puglia dove alloggiavamo. Eravamo in pochi: gli addetti al centro di comunicazione e qualcun altro che, come me, era troppo scosso per andare alla manifestazione. Improvvisamente, intorno alle 11 un plotone di celerini in assetto antisommossa ha fatto irruzione nel cortile della scuola. Alcuni di loro avevano il volto coperto da passamontagna e un atteggiamento molto aggressivo. Hanno portato via cinque, sei ragazzi, scelti fra quelli con un aspetto più “alternativo”. Io, pur essendo stato indicato dal funzionario in comando, sono riuscito a dileguarmi e a rientrare all’interno dell’edificio, ma pochi minuti dopo sono arrivati i carabinieri».

    Sono stati loro ad arrestarti?

    «Sì, ma non subito. Hanno iniziato a perquisire gli zaini, mentre un personaggio in borghese catalogava le riviste e i volantini rinvenuti nella struttura nonostante fosse materiale pubblico che circolava in quei giorni senza alcuna restrizione. Abbiamo vissuto una situazione kafkiana nella quale per ore non sapevamo cosa stesse accadendo, ma soprattutto con quale imputazione eravamo trattenuti visto che non avevamo commesso alcun reato. Poi siamo stati caricati a coppie su volanti della polizia e, dopo una sosta di circa venti minuti in un piazzale, portati a Bolzaneto».

    Qui cosa è successo?

    «Ci hanno fatto passare con le mani sulla testa fra due ali di celerini e ho intravisto due camere di sicurezza con le grate coperte da tende dalle quali venivano urla e lamenti. Una volta in cella ci è stato imposto di stare a gambe divaricate con la faccia rivolta verso il muro, guardati a vista e minacciati di percosse se ci fossimo mossi o avessimo parlato tra noi. Siamo rimasti in quella posizione dalle 15 fino all’alba del giorno dopo. Per me che ho problemi alle gambe è stata una vera e propria tortura. Ma peggio di me è andata a un occupante di una delle celle vicine con un arto artificiale (Mohammed Tabbach ndr). Gli urlavano di stare in piedi nonostante lui continuasse a ripetere che non ce la faceva più. A un certo punto, stremato, si è rifiutato di obbedire agli ordini e con la coda dell’occhio ho visto un gruppo di 4-5 agenti entrare in cella e picchiarlo ferocemente con calci e pugni».

    A voi invece non è successo nulla?

    «Purtroppo anche noi siamo stati vittima di intimidazioni e violenze. In particolare io e una ragazza (Katia Leone ndr) siamo stati presi di mira da un gruppo di agenti che stazionava all’esterno della struttura, vicino alla finestra della cella che come tutte le altre era ospitata nell’unico piano della struttura. Come ho detto ai giudici, vedevo solo le loro teste e quindi non sono in grado di dire a quale corpo appartenessero. Facevano squillare continuamente un cellulare la cui suoneria era “Faccetta nera” e ci deridevano. Io sono stato preso in giro per la mia bassa statura. Poi ci hanno sputato addosso e la ragazza ha iniziato a piangere. Non soddisfatti hanno spruzzato all’interno del gas lacrimogeno che ci ha provocato un forte malessere. A quel punto sono scappati via ridendo. Uno “scherzo” da militari che li avrà fatti sentire molto virili e fieri di sé stessi…»

    Avete avuto cibo e bevande?

    «Nulla, solo due bottigliette d’acqua aperte che abbiamo diviso in dieci. Non sapevamo nell’acqua cosa ci fosse, ma avevamo troppa sete per evitare di bere. A un certo punto ho iniziato ad avvertire l’esigenza di andare in bagno e ho chiesto più volte di poterlo fare: mi è stato concesso dopo quasi un’ora. Un agente mi ha accompagnato e con la porta aperta ho dovuto fare i miei bisogni davanti a lui che mi diceva: «caca, merda, fai presto». Rientrato in cella mi è stato ordinato di rimettermi nella stessa posizione di prima, questo fino all’alba quando finalmente ci hanno permesso di sederci e vinti dal freddo e dalla stanchezza ci siamo addormentati. Al risveglio sono stato portato nel carcere di Alessandria e credo sia stata la mia salvezza, visto che alcuni agenti della polizia penitenziaria di Genova mi avevano detto che mi avrebbero massacrato di botte una volta arrivato a Marassi».

    Ad Alessandria ci sono stati altri episodi di violenza?

    «No, anzi, devo dire che le guardie carcerarie sono state molto gentili. Ci hanno permesso di lavarci fornendoci tutto l’occorrente e, nonostante la domenica in quel penitenziario sia previsto solo il pranzo e noi eravamo arrivati dopo, si sono prodigati per farci mangiare visto che eravamo a digiuno da oltre 36 ore. Se dovessero leggere questa intervista sappiano che non smetterò mai di ringraziarli».

    Cosa ti ha colpito di questa esperienza?

    «A Bolzaneto continuavano a ripeterci che in una così bella giornata di sole avremmo fatto meglio ad andare al mare. Quindi la nostra unica colpa è stata aver partecipato a quelle giornate di lotta contro i potenti del pianeta. L’esercizio di un diritto elementare è stato sufficiente a farci arrestare senza aver fatto nulla, a farci deridere, torturare e umiliare per le nostre idee e non per aver commesso crimini. Però ora gli imputati sono loro e spero che la giustizia faccia il proprio corso fino in fondo».

    La Sinistra, periodico politico campano, maggio 2008

Leave a Reply