BruceLaBruce &amp l’alt porn di questo cazzo

Sta cosa me ha ricordato una fulminante battuta di”Avere Vent anni”
(Ma che cazzo è sta Baader-Meinhof?) Bruce, il punk del cinema rosa

Fotografo, cineasta, attore, performer, icona del movimento gay più eretico, LaBruce racconta il suo ultimo film, “The Raspberry Reich”, a Roma sugli schermi del Tekfestival. La Baader-Meinhof in chiave porno, con amore e umorismo. “Volevo raccontare gli anni Settanta, un’epoca di rivoluzione e di utopia. Oggi si parla molto di terrorismo ma la parola ha un senso diverso. E la paura che evoca viene usata per reprimere ogni dissenso, considerato un atto pericoloso”

La biografia sul sito (www.brucelabruce.com, merita una visita), ci dice di lui che è scrittore, fotografo, filmmaker “intrappolato” in quel gulag meglio noto come Toronto, Canada. Ma Bruce LaBruce è qualcosa di più. Icona bruciante del movimento gay più radicale, homocore e queercore, autore di fanzine gay e punk (J.D.s, Dumb Bitch Deserves To Die – insieme a Candy Parker), esploratore di generi e linguaggi tra super8 (Boy/Girl; I know what’s like to be dead, Bruce and Pepper Wayne Gacy’shome movies; Slam!), performance, Bruce LaBruce dal punk, suo riferimento teorico vissuto sin da adolescente ha affinato l’intuito per umorismo, provocazione, gusto di una libertà irriverente trasformati in immaginario antagonista. Attore dei suoi film come nel lungometraggio d’esordio No Skin off My Ass (1991) storia d’amore “dark tra un parrucchiere gay (lo stesso Bruce) e un ragazzetto skinhead bellissimo e muto che diviene subito un “cult”, riferimento obbligato nella cultura gay (e non solo) più underground e piacevolmente eretica. Lo stesso La Bruce’s Hustler White realizzato (dopo Super8 1/2, 1994) insieme a Rick Castro. Nel 98 gira il suo primo porno riconosciuto – lo dice lui stesso – Skin Flick (produce la berlinese Cazzo Film), skinheads neonazi supersexy che dissacrano una coppia molto rigidamente borghese (nel cast c’è Nikki Uberti). Nel frattempo è fotografo e giornalista sulle pagine di Honcho and Inches e su Eye Magazine e Exclaim, The Guardian, Dazed and confused, Vice, Dutch… Il suo ultimo film The Raspberry Reich vuole essere un omaggio alla Raf di Baader e Meinhof e più in generale all’utopia degli anni Settanta. Ma è anche un porno e un film che – come dice lui stesso – che gioca su distanza e assoluta intimità, nella storia dei ragazzini che a Berlino ora vogliono essere come Baader e Meinhof. Lo vedremo in Italia grazie al lavoro del Tekfestival che si apre oggi (Roma, cinema Labirinto). Bruce LaBruce lo abbiamo invece incontrato a Torino dove era giurato (sfoggiando la stupenda t-shirt gadget di The Raspberry Reich ) all’ultima edizione del festiva di cinema gay Da Sodoma a Hollywood.

Come nasce “The Raspberry Reich”?

Era un film a cui pensavo da un po’. E non solo per l’interesse verso la Baader Meinhof. Gli anni settanta rappresentano una rottura nella cultura occidentale attraverso una certa idea di militanza politica. Si combatte contro il sistema capitalistico, la protesta sociale e politica è anche armata. Non penso solo alla Baader Meinhof ma alle Black Panthers o ai Weathermen. Oggi, soprattutto dopo l’11 settembre, si parla nuovamente molto di terrorismo, e la risposta in nordamerica e nel resto del mondo ha dato origine a una violenza e a una repressione costanti. Naturalmente il terrorismo a cui ci si riferisce non ha nulla in comune con le idee di allora, uguaglianza sociale e politica, vittoria proletaria, mobilitazione internazionale per le minoranze oppresse. E però usando la paura collettiva qualsiasi forma di dissenso, specie negli Stati uniti, è diventata terrorismo, quindi costretta al silenzio e estremamente repressa. Ecco perché ho voluto bombardare il pubblico di nuovo con questi ideali e con una serie di discorsi che sono scomparsi del tutto dall’orizzonte mentale delle persone.

“The Raspberry Reich” è anche un film porno.

Mi sembrava che le cose insieme funzionassero. Si diceva che senza rivoluzione sessuale non si poteva cambiare il mondo. Oggi forse non lo ricordiamo ma allora anche la classe media sperimentava un cambiamento sessuale, erano diffusi gruppi di riflessione, bi e omosessuali, si viveva nelle comuni, si parlava di sesso e spiritualità. All’università studiavano Reich e Marcuse, e tutti i teorici della repressione sessuale come causa primaria dei malesseri culturali e sociali.

Da ragazzino hai scelto il punk. Per te era una reazione a quanto ti aveva preceduto?

Mi sembrava una sfida allo stato delle cose, siamo già alla fine degli anni settanta e il movimento punk rappresentava per me la sola resistenza possibile alla crescita di una società controllata dalle multinazionali, da interessi economici e di potere. E anche all’ idelogia repressiva e poliziesca che dominava, all’individualismo e a quelle forme neutre di dissenso senza prospettiva. In generale però credo che il punk americano sia nato come reazione ai valori delle culture precedente, gli anni 60 del movimento hippie e dell’amore libero, gli inizi dei settanta, la cultura del movimento studentesco cresciuta nelle marce contro la guerra in Vietnam. Tutte cose che erano fallite nell’America reazionaria di Reagan. Il punk ha un’identità anarchica molto forte, combatte per decentrare il potere, è contro le multinazionali e gli interessi corporativi, si pone in conflitto con tutto. Inoltre nel mio caso, ero stato anche molto deluso dal movimento gay che già agli inizi degli anni ottanta era borghese e esteticamente senza speranza. Però il punk negli Usa, che pure ripeto ha un carattere fortemente politicizzato e anarchico, è anche diventato hardcore, quindi con un atteggiamento macho che emargina donne e gay. È stato allora che ho cominciato la mia ricerca sui movimenti degli anni 60 o 70 che praticavano anche la lotta armata.

A cosa allude il titolo, “The Raspberry Reich”?

Era un termine che usava Gudrun Esslin per indicare quella piccola e media borghesia tedesca che supportava la Raf, nonostante fossero dei terroristi e dunque un potenziale pericolo per il loro status. La parola Reich rimanda anche al terzo reich che però è rosa (raspberry) dunque il movimento gay.

Comunque i tuoi protagonisti non sono la Raf ma un gruppo che cerca di imitarli oggi. Questa distanza esprime anche la tua critica a Baader-Meinhof?

È complicato, The Raspberry Reich è un film che lavora su una dialettica, o qualcosa che almeno vorrebbe esservi simile. Non sono particolarmente interessato all’ironia di per sé e neppure al paradosso ma credo che ci sia una specie di paradosso in questo film. Che è nella sua doppia anima. La nostalgia per un tempo di utopie e ideali rivoluzionari condivisi da una parte. Ma anche la critica verso persone che non mettono in atto quanto dicono. Gudrun Esslin si dichiara bi-sex ma in realtà non è affatto interessata alla cosa, è solo una strategia politica… C’è una certa ambiguità nel film che vuole opporsi alla tendenza attuale di svuotare radicalismo e militanza del proprio significato. La Raf è un ottimo esempio. Da qualche anno in Germania è diventata un oggetto-fashion. Mi viene in mente il film Baader, dove lui era un tipo alternativo senza alcuna sostanza politica. Certamente la Raf aveva un certo glamour, auto veloci, occhiali da sole, giubbotti di cuoio, che però era legato alle loro idee politiche e sociali. Anche il pensiero intellettuale aveva molto fascino allora, mentre oggi si considera inutile. Del resto le azioni contro la proprietà adesso sono viste come il crimine peggiore.

Parlavamo del movimento gay. Continui a considerarlo borghese?

Assolutamente, anzi la vasta maggioranza è immersa in una idea materialista e consumista. L’ossessione per il matrimonio è un passo ulteriore verso il conformismo sociale, per diventare uguali agli etero. Anzi neppure perché anche lì il matrimonio è stato messo da tempo in discussione Per me è uno strumento con cui controllare la gente a la sessualità. Ci si ispira in questo a una tradizione che detestava i gay, un’ ortodossia che nel movimento è una forma di esclusione verso coloro che non rispondono a queste caratteristiche, transessuali, etc… Mi sembra che si cerchi di essere il più omologati possibile, mentre prima appartenere al movimento gay voleva anche dire rivendicare una differenza.

Intervista di Cristina Piccino – IL MANIFESTO – 05/05/2005

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