Una rondine fa primavera +You become what you believe

FRANCO BATTIATO

Mercoledì prossimo il compleanno del musicista siciliano.
«Quest’epoca dominata dalla peggiore tivù sta producendo soltanto uomini neoprimitivi»

«A 60 anni sogno ancora un mondo di valori»

«Ciò che manca oggi è l’intelligenza, che non viene dal computer ma dalla nostra percezione Il mio vero stratagemma per vivere? La fede in Dio»

Ieratico, tra echi di danze sufi e di mullah immobili. Ma anche punk-rock, da Shock in my town all’ultimo, ruvido, Ermeneutica. È il «trasversale», come si autodefinisce, Franco Battiato, sessant’anni mercoledì prossimo. Il più “mistico” dei nostri cantautori, capace di mettere d’accordo, in un quarto di secolo di pop, i palati più raffinati e la platea da palasport. Ma il musicista che prima di scoprirsi cantautore ha inseguito negli anni 70 le impervie sonorità dello sperimentalismo, si è ora consolidato anche come regista (Musikanten, la sua seconda opera, sulla vita di Beethoven, sarà forse in rassegna alla prossima Mostra del cinema di Venezia), espandendo così, con immagini da grande schermo, la sua domestica attività pittorica.
Battiato, tra dischi e cinema l’attività è frenetica. Ma i 60 anni sono una tappa che induce a guardare anche alle proprie spalle. Se dovesse riassumere in un unico concetto, cosa ha imparato finora dalla vita?
«Prendendo spunto da un proverbio turco, direi che ho imparato che è molto di più quello che non si vede che quello che vediamo della realtà. Invece gli uomini continuano a credere il contrario, comportandosi di conseguenza. È questa la loro condanna. Si insegue ossessivamente il potere, facendo ogni giorno la guerra agli altri. Si cade negli stessi errori, è una coazione a ripetere».
Eppure qualche progresso la civiltà l’ha fatto nel corso dei secoli…
«Ma è la crescita personale l’anello debole dell’evoluzione umana. Per questo abbiamo ragazzini che fanno gli estorsori verso bambini più piccoli. Stiamo regredendo sul piano dei valori fondamentali. Bisogna recuperare l’insegnamento e il buon esempio da parte delle famiglie e della scuola. Ma vedo in giro genitori incapaci e disorientati. Dominano i neoprimitivi, ignoranti che guardano soltanto partite di calcio e sciocchezze varie in tv».
Anche lei punta l’indice contro la televisione? possibile che sia la madre di tutti mali?
«Certo, perché occupa il tempo libero di gran parte della gente. Prendiamo i telegiornali: dovrebbero essere uno dei punti più alti della comunicazione televisiva. Beh, sono diventati degli show, con servizi da avanspettacolo. Ma il peggio è che fanno vedere sempre morte e violenza come se al mondo non ci fosse altro. Il dolo sta nel voler esasperare, mai mitigare o rasserenare».
Visto il film che sta girando, a Beethoven continua a preferire l’insalata come cantava vent’anni fa?
«Battute a parte, il bello della canzone è che a volte dici cose scherzose, ma vieni preso sul serio. È chiaro che non ce l’avevo con Beethoven, che ho sempre amato. Irridevo al boom di musica beethoveniana scoppiato verso la fine degli anni 70. Un’indigestione che poteva far male alla grande musica. Di quella frase di Bandiera bianca è vera però l’altra metà: preferisco l’insalata a Sinatra. Grande voce, ma troppo patinata».
Più di vent’anni vissuti a Milano, poi nell’88 il ritorno in Sicilia. Perché quella fuga? cosa successe?
«Milano, dove emigrai nel ’64, la considero sempre la mia città, tant’è che ho ancora casa lì. Ma mi aveva stancato, stava diventando invivibile per me. Avevo bisogno di aria nuova. Così sono tornato a Catania e a Milo, nell’entroterra».
Cosa le piace e cosa la disturba della Sicilia e dei siciliani?
«Del popolo siciliano mi fa orrore la violenza e la prepotenza mafiosa. Senza questa piaga sarebbe una terra splendida. Ma io, per mia natura, tendo a vivere un po’ blindato. Chiudo la porta, lascio fuori i rumori della città e appena posso mi isolo. Cerco di non perdere il mio tempo».
Non mi dica che le pesa essere un personaggio osannato e riverito…
«Beh, a volte mi pesa un po’, vorrei avere la libertà di movimento di uno sconosciuto. In compenso posso concedermi intere giornate a casa ad avvicinare e studiare le eccellenze della musica e del pensiero per farle rivivere in me. Non sono io che mi rifugio nel passato, ma è il passato che si fa presente in me. Uno stimolo per migliorarmi ed elevarmi. Sono anche un patito di Internet, una miniera d’informazioni. Ma bisogna saper cercare, se no ci si perde. Come nella vita, del resto. Bisogna usare l’intelligenza, quella vera».
Cosa intende per intelligenza vera?
«L’apprendimento e l’uso di un computer sono alla portata anche di una scimmia. La vera intelligenza è invece la percezione: del reale e di ciò che non è visibile. Quando l’uomo affina la percezione capisce di non essere fine a se stesso. C’è molto di più oltre il mondo sensibile».
Il suo ultimo album «Dieci stratagemmi» si chiude con un brano meraviglioso e inquietante, sospeso tra la terra e l’aldilà: «La porta dello spavento supremo». Qual è lo stratagemma finale per accettare di doverla attraversare?
«La fede. Non ne conosco altri. Ma, come diceva Wittgenstein, di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere. Quaggiù il mezzo per arrivare all’incantamento di Dio è il rito. Non scorderò mai l’atmosfera che si creava quando, ancora viva mia madre, si celebrava messa nella nostra cappella privata. Stavamo lì, come una piccola comunità assorta. Forse era così anche per i primi cristiani»

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