Apocalypssss Now . an italian history : i Rossi

Caro Solieri, ci conosciamo dal 77 quando, vestito con una giacca scozzese da impiegato bancario, e gli occhiali da vista neri, ti incontrai per la prima volta insieme a Sergio Silvestri.. carissimo amico che era stato in collegio con me, aveva suonato la chitarra con me, era stato due anni a Londra e aveva assimilato lo spirito inglese della musica, oltre che imparato l’inglese. Quando mi chiese di venire a lavorare a Punto radio per tradurre i testi delle canzoni non ebbi dubbi e lo assunsi subito. Tra l’altro era il migliore tra noi “puntautori”. Le sue musiche erano già rock inglese. Nei testi mancava un pò forse del tutto non so. So solo che comunque la musica della” Strega” è sua! E con il mio testo è stata la prima canzone veramente originale e rock che ho realizzato Tu eri amico di Sergio, mi ricordo il primo incontro sui binari del treno…e assunsi anche te perché conoscevi molto la musica americana e inglese ed eri una specie di esperto che a punto radio poteva dare molto.
Poi ti sentii suonare la chitarra una sera al bar e rimasi stupefatto. Suonavi esattamente come oggi. Ed è questo il punto caro Solieri. Da quando abbiamo cominciato nel 78 non sei cambiato di una virgola. Non sei cresciuto…non ti sei evoluto … non ti sei mai perfezionato e sei rimasto nel tuo mondo di assoli molto spettacolari ma poco precisi…e negli anni novanta sono arrivati quelli che non sbagliavano una nota…quelli come Stef. Dovevi essere tu Stef secondo me. Ma tu non lo ammettevi neanche. Ricordi le litigate per gli assoli da dividere e che la dura e spietata legge del rock non ammette ed è molto chiara. Chi suona meglio sta sul palco chi non tiene il passo e rimane indietro va a casa.. e non sono io che lo decido. E’ la storia!..e benvenuto nello spietato e violento mondo del rock! Poi sei sempre stato un fuoriclasse ma non sei diventato un professionista. Tu suoni solo come vuoi o puoi tu. Infatti non hai mai suonato con nessuno altro. Solo con me. E a un certo punto dopo aver scherzato giocato fatto cazzate di tutti i tipi o diventi un professionista o vai a casa. E io sono diventato un professionista. E ho imparato studiato cercando di migliorare ..ti ricordi come cantavo nell’ 83…con te che suonavi a un volume altissimo, la batteria di Casini nei capelli. Ho dovuto imparare a cantare senza sentirmi. Oggi se mi sento troppo non mi trovo a mio agio. Dici che ultimamente sembra sia incazzato con il mondo?..forse non sto bene? Ma vai a farti fottere anche te insieme a tutti gli altri..Io incazzato lo sono stato sempre! Col mondo, con me e anche con te!..E non sono mai stato bene. Io sto male! Mi meraviglio che non tu l’abbia mai capito. Ma tu ascoltavi solo la tua chitarra e anche oggi in ogni intervista dimentichi che hai potuto esprimere il tuo talento solo grazie a me. Altrimenti dimmi con che gruppo avresti suonato.? È ora che vi ricordiate ragazzi che io ho cominciato a scrivere le canzoni. Io ho cominciato ad andare davanti alla gente con la mia faccia e il mio nome. Io ho cominciato a cantarle e voi eravate degli orchestrali e le vostre prime timide musiche che io vi ho consigliato di fare sulle quali io ho scritto le parole le ho fatte diventare vere le ho interpretate e le ho cantate le avete cominciate a scrivere molti anni dopo e comunque ho sempre fatto tutto io. Perché volevo che la musica di Vasco Rossi fosse varia . Eravate tutti sostituibili anche se per me eravate i migliori. L’unico insostituibile ero io. Questa è la realtà caro Solieri. Potevo prendere anche Riky Portera Ti ricordi? Era lui il chitarrista rock per eccellenza a quei tempi. Ti dirò di più da dieci anni, da quando è morto Massimo, io e Guido ogni volta che dobbiamo organizzare un tour e scegliere i musicisti ci dicevamo . ma Solieri. Lo lasciamo a casa? A noi serve un chitarrista ritmico non un altro solista rimasto negli anni ottanta. Poi alla fine per affetto per la storia per i fans decidevamo ogni anno di prenderti. Questa è la verità caro Solieri. Io ti voglio molto bene. Però te l’ho detto. Se quando fai un’intervista sulla musica di Vasco Rossi sul suo mondo che poi è il tuo, riesci a non nominarmi mai, non cominci col dire che ringrazi il giorno che mi hai incontrato io che sono molto stanco della tua arroganza e della tua io ti restituisco tutto con questo mio documento che firmo e che pubblico. Dici che lavori ancora per me ma i nostri rapporti sono solo professionali? Ma è sempre stato così. Perché lo dici oggi come fosse strano? Non ci siamo mai frequentati al di fuori del palco. Mai sentiti per mesi forse incontrati in qualche locale ubriachi, ma mai visti per anni…solo durante i concerti, sul palco, diventiamo fratelli compagni complici più che amici un gruppo rock che suona e fa della musica. Abbi cura di te Vasco

2 Comments

  1. Dario Antonelli scrive:

    Turchia – Le radici della rivolta

    Il 30 maggio la polizia turca si presenta con i bulldozer a Gezi Park, l’ultimo parco dell’area di Piazza Taksim, da giorni occupato pacificamente dal movimento che si oppone alla distruzione dell’ultimo spazio verde della zona.

    Il parco viene sgomberato dalla polizia con brutalità. Oltre ai lacrimogeni e alle violenze sui manifestanti, la polizia incendia le tende degli occupanti e distrugge gli alberi che questi avevano piantato nel parco nei giorni precedenti.

    L’occupazione di Gezi Park era cominciata il 28 maggio. Il parco si trova nella centrale Piazza Taksim, sulla sponda europea della città, una zona estremamente turistica ma anche un luogo simbolo di resistenza e di lotta per i lavoratori e per i rivoluzionari. La piazza in cui il Primo Maggio del 1977 furono uccisi 34 manifestanti. La piazza attorno alla quale anche quest’anno la polizia ha massacrato a forza di botte, lacrimogeni e idranti la folla scesa in piazza, nonostante i divieti, per la giornata internazionale dei lavoratori.

    Questa volta la violenza della polizia ha incontrato però una reazione determinata e di massa.

    Nonostante i continui attacchi della polizia, sempre più persone si sono unite alla resistenza di piazza. Dopo giorni di scontri ininterrotti, nei quali la polizia ha usato mezzi sempre più duri e violenti, alle 16 del primo giugno, i blindati iniziano a ritirarsi da Piazza Taksim, i cordoni dell’antisommossa arretrano e abbandonano la piazza. La resistenza di oltre un milione di manifestanti, la solidarietà praticata nelle strade, ha alla fine costretto il governo a fare almeno un passo indietro. In piazza ci sono tutti: donne e uomini, ecologisti, abitanti della zona, lavoratori, curdi, socialisti, anarchici, verdi, sindacati, repubblicani, ultras, attivisti delle ong. La rivolta non si ferma con la ritirata della polizia da Piazza Taksim, i manifestanti restano a presidiare la piazza, le barricate restano in piedi. In decine e decine di altre città continuano gli scontri e le proteste, a Ankarea e Izmir la polizia interviene con estrema violenza. Ormai si tratta di un’estesa rivolta contro un governo autoritario e conservatore, contro il terrorismo di stato, contro la devastazione capitalista.

    Tutto questo per qualche albero?

    “Nessuno ha il diritto di aumentare le tensioni in Turchia usando come scusa alcuni alberi tagliati“

    Questo ha dichiarato il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan. Per quanto i media ufficiali, in Turchia come a livello internazionale, abbiano cercato soprattutto nei primi giorni di parlare solo di Gezi Park e della difesa degli alberi, le radici profonde di questo movimento di lotta sono ormai evidenti a tutti quelli che le vogliono vedere.

    Già lo stesso movimento in difesa di Gezi Park non mira alla semplice salvaguardia del verde pubblico, ma si oppone all’intero processo di gentrificazione urbana in atto nella zona di Taksim. Detto in parole semplici, con gentrificazione si intende la trasformazione di aree urbane povere in aree ricche. Questo processo si traduce da una parte in abbattimento e cementificazione selvaggia, dall’altra in esclusione dei più poveri da tali aree, con conseguente abbassamento del livello di vita per le classi popolari. Nelle aree centrali di Istanbul questo processo è in corso già da anni. Interi quartieri vengono distrutti per lasciare spazio a complessi residenziali, grandi centri commerciali, alberghi di lusso, il costo della vita aumenta, aumenta la schiera degli emarginati, aumentano i profitti degli speculatori legati al partito di governo, l’AKP. Al posto del Gezi Park, Erdoğan vorrebbe far costruire un imponente centro commerciale, una moschea e un rifacimento delle caserme ottomane che si trovavano nella piazza prima della costruzione del parco.

    Un progetto che sintetizza i cardini ideologici della sua politica: capitalismo sfrenato, conservatorismo religioso, nazionalismo in salsa neo-ottomana.

    Riportare la Turchia ai fasti imperiali del periodo ottomano è uno dei ritornelli della retorica del governo turco. Per questo sono pronti già altri favolosi progetti: l’aeroporto più grande del mondo, la moschea con i minareti più alti del mondo, ed un nuovo canale parallelo al Bosforo.

    Contro questi progetti di vera e propria devastazione sociale ed ambientale si sono sviluppati movimenti popolari. In particolare nella regione del Mar Nero si sono tenute negli ultimi anni numerose manifestazioni contro discariche, centrali nucleari, fabbriche inquinanti, autostrade e dighe.

    La rabbia esplosa nelle piazze affonda le sue radici anche nel sempre più selvaggio sfruttamento imposto alla classe lavoratrice in Turchia. Milioni di persone nel paese lavorano in condizioni quasi servili, con salari bassissimi ed altissimi tassi di incidenti e morti sul posto di lavoro. Queste condizioni sono ancora più drammatiche negli appalti e nelle esternalizzazioni. A questo si accompagna una organizzazione fortemente gerarchica del lavoro e la repressione dei lavoratori che si organizzano autonomamente, nei sindacati rivoluzionari e di classe.

    Un altro elemento determinante nell’esplosione delle rivolte è costituito dalle politiche islamiste conservatrici imposte dal governo. Quelle che giornali come “Repubblica” hanno liquidato come “proteste della birra” o, più romanticamente, “dei baci”, sono in realtà una reazione compatta della società turca al barbaro attacco alle libertà personali. Non si tratta di difendere uno stile di vita occidentale o di rivendicare il laicismo militare di Ataturk. Chi scende in piazza ha capito che il governo vuole completare il proprio sistema di dominio legalizzando ed istituzionalizzando una repressione religiosa che punta ad eliminare ogni libertà individuale. Le politiche di Erdoğan comprendono divieti sugli alcolici, divieti sulle relazioni pre-matrimoniali, ma soprattutto un attacco alle donne. Il governo vorrebbe infatti intervenire contro aborto e contraccezione, inoltre sta cercando di limitare le libertà di scelta della donna su un piano più generale, imponendole il lavoro domestico secondo un modello di sottomissione patriarcale.

    Infine un ulteriore fattore di forte malcontento è dovuto alla politica interventista del governo turco nei confronti della Siria. Le mire imperiali del nazionalismo neo-ottomano varato da Erdoğan hanno portato la Turchia ad impegnarsi a livello internazionale e a intraprendere una guerra sporca contro un paese vicino. Una guerra che si sta estendendo anche in Turchia con già molti morti per bombe ed uccisioni: l’11 maggio a Reyhanlı-Hatay 52 persone sono rimaste uccise e 140 ferite dall’esplosione d due auto piene di esplosivo.

    Il terrorismo di Stato innesca la rivolta.

    Le brutalità di questi giorni perpetrate dalla polizia sono forse per molti di noi inimmaginabili.

    La potenza degli idranti, i lacrimogeni CS lanciati fino ad esaurimento scorte, gli altri gas tossici ancora peggiori come il gas arancione. Le cariche dei blindati, che i turchi non a caso chiamano “panzer”. Le pallottole di gomma, le bombe lacrimogene sparate in testa ai manifestanti, i proiettili veri sparati dalla polizia e che hanno fatto almeno un morto. Le botte e le torture nei confronti degli arrestati, molti dei quali bisognosi di cure. Uno scenario terrificante che in buona parte era già andato in scena quasi un mese prima, durante le manifestazioni del Primo Maggio ad Istanbul, vietate dalle autorità. Un copione quasi quotidiano in Kurdistan, dove al di là della guerra con il PKK, lo Stato turco usa il pugno di ferro anche contro le normali manifestazioni dei curdi nelle città. Perché è così che lo Stato turco gestisce ogni tipo di dissenso, è una linea comune che unisce i governi repubblicani laici, le dittature militari e il governo islamico dell’AKP. Una linea fortemente autoritaria e repressiva che negli ultimi mesi in Turchia era andata ad inasprirsi ulteriormente e a farsi sempre più invasiva allo scopo di applicare senza esitazioni le politiche del governo. Forse è proprio per questo che l’ennesima violenza brutale della polizia contro una protesta pacifica nella simbolica Piazza Taksim ha scatenato una reazione tanto determinata e compatta in tutta la Turchia.

    Alla brutalità della polizia ha risposto la solidarietà concreta nella rivolta sulle strade e sulle barricate. Case, Università, piccoli negozi hanno aperto le porte ai manifestanti. Medici e infermieri volontari hanno improvvisato ospedali negli edifici disponibili. Milioni di persone si sono unite alla resistenza contro il terrorismo di Stato. Al momento in cui scriviamo (sera del 03/06/13), non è ancora chiaro quale sia il numero dei morti. Un giovane è stato ucciso ad Ankara da un colpo di pistola alla testa sparato a bruciapelo dalla polizia, altre tre vittime sono state confermate. Gli arrestati e i feriti sono ormai incalcolabili. Non sappiamo come continueranno le proteste, ma soprattutto non sappiamo ancora quali possano essere i possibili scenari. Dopo questi giorni che sanciscono una prima sconfitta politica del governo AKP e del primo ministro, sono ancora da chiarire molti aspetti.

    Primo fra tutti il ruolo dell’esercito, che ha sempre dominato la scena politica turca e che è stato non di rado protagonista di colpi di stato che con la scusa della difesa dell’integrità della nazione e della laicità dello Stato, sono serviti soprattutto ad eliminare l’opposizione di sinistra e rivoluzionaria. L’esercito infatti pur essendo stato “purgato” negli ultimi anni degli elementi golpisti o comunque invisi al governo, resta sempre un potente fattore in campo, con poteri di sorveglianza politica sul governo dati dalla stessa costituzione, anche se molto ridotti dal governo. Per ora sembra essere rimasto in disparte, anche se alcune testimonianze parlano di un atteggiamento benevolo dei militari nei confronti dei manifestanti. Certo la situazione militare della Turchia è attualmente molto complessa. Alla guerra in Siria si aggiunge l’incertezza della “tregua” con il PKK, proprio il 3 di giugno c’è stata, infatti, una sparatoria tra militari turchi e guerriglieri curdi.

    Gli anarchici partecipano al movimento in tutta la Turchia, sono presenti nella resistenza nelle strade e difendono i manifestanti. Il gruppo di Istanbul Azione Anarchica Rivoluzionaria (Devrimci Anarşist Faaliyet) fa appello a organizzare iniziative di solidarietà internazionale, a sostenere la lotta contro il terrore di Stato e la devastazione capitalista.

    In ogni caso qualunque siano gli sviluppi della situazione una cosa è certa. In questi giorni milioni di persone in Turchia hanno dimostrato un enorme coraggio e forse stavolta non sarà facile terrorizzare i lavoratori con le stragi o eliminare l’opposizione sociale con la legge marziale e il coprifuoco. Il ministro degli esteri Turco Ahmet Davutoglu ha dichiarato che le “Manifestazioni nuocciono all’immagine del Paese”. Se c’è una certezza che emerge da questi giorni di lutti e di rivolta è l’esempio che da Piazza Taksim si rivolge a tutto il mondo. 40 ore di battaglia nelle strade, 40 ore di solidarietà che hanno legato centinaia di migliaia di persone nel centro di Istanbul. 40 ore che hanno riscattato 40 anni di violenze, stragi, esecuzioni, incarcerazioni, esili. 40 anni di terrore di Stato. Per la prima volta dopo il Primo Maggio del 1977 si è rientrati a Taksim a testa alta.

  2. Wu Ming scrive:

    #Occupy Landscape

    4 giugno 2013 14.48

    Le prime notizie da piazza Taksim, a Istanbul, raccontavano di cinquanta manifestanti accampati per impedire l’apertura di un cantiere e la distruzione del parco Gezi, “l’unico polmone verde rimasto nel centro cittadino”.

    Dopo quattro giorni di protesta, cinque persone in condizioni gravissime, un morto, millesettecento arresti e scontri in tutte le città del paese, i media occidentali parlano di primavera turca, attacco al regime di Erdoğan, battaglia per la democrazia.

    Come era già accaduto per la rivolta egiziana, giornali e televisioni esprimono solidarietà e simpatia nei confronti dei ribelli, senza troppo insistere su lanci di sassi e vetrine rotte, mentre condannano con sdegno la polizia antisommossa che ha fatto uso di idranti, spray al peperoncino, pallottole di gomma e lacrimogeni ad altezza d’uomo. Un atteggiamento opposto a quello che di solito incornicia le manifestazioni nostrane, dove si giustifica la “reazione” delle forze dell’ordine e ci si appunta sul vandalismo “dei black bloc”.

    Qualcuno dirà che c’è una bella differenza tra chi combatte per la democrazia e chi lo fa – per esempio – per bloccare un cantiere. In questo caso, gli alberi del parco Gezi erano solo un pretesto. Non si tratta della solita, stupida, egoistica battaglia in difesa del proprio cortile.

    Ma siamo davvero sicuri che sia così?

    Certo basta guardare una mappa di Istanbul per rendersi conto che Gezi Parkı, in quanto area verde, non è nulla di così speciale. Assediato dai grattacieli e dal traffico, si trova a un paio di chilometri in linea d’aria da parchi più estesi, come il Maçka e lo Yıldız.

    A differenza di questi ultimi, però, il Gezi non è un semplice giardino: fa parte di un quartiere che molti considerano il cuore della città, la sua zona più creativa e libera. Piazza Taksim è da sempre un luogo di ritrovo e di protesta. Il 1 maggio 1977, durante le celebrazioni per la festa dei lavoratori, una mano rimasta ignota sparò sulla folla di 500mila manifestanti. Il caos e l’intervento spropositato delle forze di sicurezza causarono 37 morti. Da allora, fino al 2010, le manifestazioni per il 1 maggio non si sono più potute svolgere in piazza Taksim. Tre anni fa, Erdoğan aveva revocato il divieto, salvo poi reintrodurlo, proprio quest’anno, con la scusa dei lavori in corso nella piazza.

    Taksim è anche il centro di un’area urbana ricca di ristoranti, luoghi di divertimento, turismo e attività economiche. Ecco perché l’amministrazione cittadina ha deciso di sostituire Gezi Parkı con un grande centro commerciale, cercando di far passare la scelta come un restauro della vecchia piazza. Al posto del parco, infatti, c’era un tempo la caserma di Halil Pasha. Danneggiata durante i moti reazionari del 1909, venne prima utilizzata come stadio per il calcio e poi demolita nel 1940. Il parco che prese il suo posto era molto più esteso di oggi, arrivava fino alla riva del Bosforo, ma in seguito venne ridotto per costruire alberghi e uffici. Il centro commerciale è quindi l’ultimo di una serie di affronti, e poco importa se il suo aspetto sarebbe una copia dell’antica caserma, in perfetto stile ottomano d’antan. La Storia, in questo caso, è davvero un pretesto, al contrario degli alberi di piazza Taksim.

    Occupy Gezi, infatti, non è soltanto una battaglia ecologista, ma non è nemmeno una battaglia simbolica. Piuttosto, è l’ennesima dimostrazione di quanto siano sentite, oggi, in tutto il mondo, le lotte per quello che Henri Lefebvre ha definito il diritto alla città, ovvero il diritto a “cambiare noi stessi cambiando l’aspetto delle nostre metropoli”. Il diritto a partecipare ai processi di urbanizzazione e a non farsi strappare dagli speculatori il valore di un quartiere, di una piazza, di un parco. Quel valore, infatti, è il risultato di un lavoro collettivo, delle attività e delle relazioni sociali prodotte da chi vive un determinato spazio. Eppure viene mercificato e venduto – tot euro al metro quadro – proprio da chi intende stravolgere quello spazio senza nemmeno confrontarsi con la comunità che ha contribuito a dargli forma. Una dinamica di sfruttamento che non è tipica soltanto dei contesti urbani: più in generale, si potrebbe parlare di diritto al paesaggio.

    Ecco allora che la difesa di una piazza, di un parco, di una valle alpina non è mai soltanto locale o soltanto simbolica. Chiedendo di poter esercitare il proprio diritto al paesaggio, i manifestanti stanno già combattendo per la democrazia. Per quella democrazia che ormai è diventata incompatibile con il capitalismo e le sue inevitabili conseguenze: l’urbanizzazione selvaggia, la speculazione edilizia e il land grabbing.

    Non deve sorprendere, allora, se la protesta del parco Gezi si è diffusa in tutta la Turchia, mettendo insieme anarchici, socialisti, sindacati, curdi e turchi, movimenti lgbt, ultrà di opposte tifoserie e persone finora rimaste lontane dalla politica.

    Ciò che sorprende, piuttosto, è che quando il diritto al paesaggio viene reclamato in Italia, invece di accogliere la protesta come una risorsa e uno stimolo, si preferisce rispondere con le parole di Erdoğan a proposito del nuovo, contestato, ponte sul Bosforo: “Possono fare quello che vogliono”, ha detto. “Noi abbiamo preso la nostra decisione e faremo come abbiamo deciso”.

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