Dovero Rimasto? 01 meet Porcodyo 8 meet micidiale 6 meet la classe operaia è morta

inanzituttto ,come ogni anno a fine estate e qui lestate sta finendo sempre piutardi, ammazzo mosche per tutto il dì.

sinonimo di merda conclamata e azione contrario alla dottrina buddhista di cui sono fervente cristiano da qualche giorno.

detto ciò che di intro si deve andare su qualcosa aggiornerei
sui vari reality in corso: raina già kajal di mascara già giardino di mirò ora è pure un’amor fou.
jukka,amico di offlaga disco max ,non ne azzecca una.il buon max invece viene attapirlato dall’insolente ff federicofiumani che a domanda risponde :

gl’offlaga non mi piacciono e anche se max è un mio fan di lunga data,mi fa cadere il cazzo e a me il cazzo piace dritto..

poretti.e se si spara suglofflaga non oso pensare che si può fare sul resto.

il resto che non lasci mai come mancia perchè nessuno se lo merita e anche se te lo meriti te lo fumi tutto subito è che che quel gran bel anagramma di artemoltobuffa sbatte la porta dell’ovile della musica indipendente (ora non più) importante itagliana al grido di c’è puzza di pesce,c’è puzza di marcio.

Insomma il tipo s’ingrifa e grida al tradimento senza rendersi conto di quanto sia più comico di woody allen..


e qui si passa ad altro.

appena penso altro mi viene in mente il loro cantante,alessandro,sempre più famoso nei giri che contano(un cazzo) e sempre un pò sovrappeso.
esce il disco nuovo,senza andrea pomini.amen.

una cosa va detta però il fisik du rol serve ,eccome, nel mondo dellamusica se no che cazzo ciabbiamo liguana in mezzo ai coglioni allalba del 2010 e il singer dei Fine before you came ?

porco dio il thombeforeyorke italiano deve morire.

detto ciò che mi son perso si torna a spalare merda degenerando con genesis “p.come pacco” orridge.
con genesis bisogna chiamare la crocerossa,dispiace dirlo ma dopo l’ennesima dichiarazione pro AsiaAriaAnnaMariaVittoria RossaArgento bisogna tagliargli il cazzo e darlo in pasto a Cristiano.

nelmentre finisco di ripparmi i naughty zombies e ritorno alla merda che è sempre il colore della terra.

Me ne vado perchè è finito il Ramadam ,oggi s’è fatto festa ,i marocchini si sono pippati l’impossibile e i fratelli senegalesi si son mangiati pure il tavolo.

detto ciò l’80% al referendum ha detto si ,ma il 72% della same trattori ha detto no.

domani è un’altro giorno.




Che cosa resta del mito operaio

Autore: Gallino, Luciano

Da la Repubblica del 12 ottobre 2007

Tutte le cose da cui siamo circondati e che usiamo, in una giornata
qualunque, sono uscite da una fabbrica. Da lì vengono, si sa, l’ auto, il
frigorifero e il televisore. Ma da una fabbrica sono usciti pure la
tazzina del caffè e il tavolo su cui posa, i vetri della finestra e le
piastrelle del bagno, il Dvd che ascoltiamo e la carta su cui è stampato
questo articolo, la serratura della porta e la cabina dell’ ascensore. Le
cose uscite da una fabbrica rendono (quasi sempre) più comoda la vita.
Usando un computer portatile, alla luce d’una lampada alogena, nel
tepore diffuso da una caldaia a gas, tutt’ e tre usciti da una fabbrica,
è anche più agevole scrivere che le fabbriche sono ormai in via di
estinzione.

La fabbrica è di regola un lungo capannone grigio senza finestre, dove
entrano materie prime e pezzi separati i quali, lavorati e assemblati,
ne escono poi trasformati in cose pronte per l’ uso. La trasformazione è
effettuata da macchine, costruite a loro volta in un’ altra fabbrica, e
dal lavoro umano. Rispetto a trent’ anni fa, entro la stessa fabbrica
sono oggi più numerose le macchine che compiono da sole varie fasi della
trasformazione, spesso integrate fra loro in sistemi flessibili di
produzione, oppure metamorfizzate in robot. Per contro è sceso di molto
il numero dei lavoratori occupati. Ma se i lavoratori non continuassero
a controllare le macchine e a provvedere con la loro attività a riempire
i larghi spazi del processo produttivo che restano aperti tra una
macchina e la successiva, anche nelle produzioni più automatizzate o
robotizzate, dalla fabbrica non uscirebbe niente.

In fabbrica c’ è sempre qualcuno che comanda, e altri che sono comandati.
Qualcuno provvede a organizzare il lavoro, dividendolo in operazioni
semplici e brevi. Vanno compiute in pochi minuti, a volte uno solo, per
poi ricominciare. Gli altri eseguono. Dal punto di vista della divisione
del lavoro, la fabbrica di oggi resta molto simile a quella di una
generazione fa, se non di due. Magari non la chiamano più
“organizzazione scientifica del lavoro”. Però si tratta pur sempre di
lavoro frammentato in mansioni parcellari e ripetitive, che si imparano
alla svelta e non richiedono all’ individuo che le svolge una qualifica
professionale elevata. Alla quale comunque non consentirà mai di
arrivare, quel lavoro diviso, nemmeno dopo una vita.

Da altri settori dell’ economia, che vanno dall’ agrindustria alla
ristorazione rapida, dalla grande distribuzione ai call center, gli
esperti guardano oggi all’ organizzazione del lavoro della fabbrica per
comprendere come si fa a estrarre da una persona la massima quantità di
lavoro utile in una data unità di tempo. Il loro scopo ideale è quello
di trasformare ogni genere di attività umana in una copia del lavoro di
fabbrica. Sembra ci stiano riuscendo.

Grazie all’ automazione e a altre innovazioni del prodotto e del processo
produttivo, in fabbrica molte lavorazioni particolarmente pesanti e
nocive ora sono svolte dalle macchine. C’ è anche meno rumore. Tuttavia
le mansioni che restano affidate a esseri umani sono altrettanto
stressanti di quanto lo erano un tempo. In numerosi casi la fatica
fisica e nervosa è anzi aumentata. Perché le fabbriche producono oggi
“giusto in tempo”, che significa alimentare un flusso ininterrotto di
materiali e di operazioni lungo tutto il processo. Ed è sempre
l’ operatore umano che deve badare a che il flusso non si interrompa mai,
che le eventuali disfunzioni vengano subito superate, e gli effetti di
queste sui tempi come sulla qualità del prodotto prontamente eliminati.
Ciò comporta ritmi di lavoro sempre più rapidi per tutti gli addetti
alla produzione; drastica riduzione delle pause durante l’ orario di
lavoro; una tensione continua per evitare che qualcosa vada storto.
Forse lo fa in modo diverso da un tempo, ma di sicuro continua a
stancare, il lavoro in fabbrica. Così come gli incidenti che avvengono
in essa, masse e arnesi grevi di metallo contro corpi umani, continuano
a ferire seriamente ogni giorno migliaia di uomini e donne, e a
uccidere, industria delle costruzioni a parte, 1200 volte l’ anno.

Invece come luogo di incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, di
interessi comuni, di amicizia, la fabbrica è cambiata. Tutte le forme di
relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di
gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del
lavoro risultano difficili. Si stenta perfino, talvolta, a mettere
insieme una squadra sportiva. La causa non sono le persone, che
avrebbero cambiato atteggiamento o abitudini. Sono piuttosto i contratti
di lavoro di breve durata, e l’ affidamento a imprese esterne, diverse
dall’ impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del
processo produttivo interno. Ciò impedisce alle persone di imparare a
conoscersi, vivendo e lavorando fianco a fianco per periodi abbastanza
lunghi. Al presente può succedere che su cento lavoratori in attività
entro una fabbrica, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano
dipendenti fissi dell’ impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri
sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un
mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova.
Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da apprendista,
interinale, o collaboratore. Ad altri, dipendenti da imprese terze,
subentreranno in fabbrica i dipendenti di imprese diverse. La fabbrica,
da luogo canonico di permanenze e stabilità, si va trasformando in un
luogo di frettoloso passaggio.

In Italia come altrove, le fabbriche non sono mai state altrettanto
numerose, e non hanno mai prodotto una così massiccia quantità di merci.
Per convincersene basta guardare dal finestrino, dell’ auto o del treno.
Strade e ferrovie che si dipartono dalle grandi città, e da tante
minori, appaiono costellate per decine di chilometri da file di
fabbriche. Di solito uno non arriva a vederci dentro, a quegli scatoloni
grigi, ma di sicuro all’ interno c’ è qualcuno che lavora. In certi posti
lavorano poche decine di persone, in altri centinaia o migliaia. In
totale, pur contando solamente i lavoratori dipendenti dell’ industria in
senso stretto, gli abitanti giornalieri e notturni delle fabbriche
italiane sono tuttora quasi quattro milioni e mezzo.

Mentre sembra che i lavoratori di fabbrica nessuno riesca a vederli,
sono invece ben visibili a tutti le colonne di tir su autostrade e
tangenziali, i treni merci lunghi un chilometro che rombano a due metri
da noi mentre sulla banchina aspettiamo l’ eurocity, le decine di
migliaia di container che riempiono i porti e le piattaforme
intermodali. È vero che parecchie di quelle merci provengono
dall’ estero. Ma non meno voluminose sono le nostre merci che viaggiano
su tir, treni e navi dirette verso destinazioni straniere. Dopo essere
uscite da una fabbrica. Dalla quale esce anche una domanda ininterrotta
di servizi. Ricerca, informatica, reti di comunicazione, logistica,
manutenzione, consulenze varie, amministrazione, formazione e altro: una
bella quota, insomma, di quel che vien denominato terziario. Chiudete o
delocalizzate la fabbrica, e la relativa quota di terziario scende a
zero. È uno dei debiti poco noti che economia e società hanno verso la
fabbrica e quelli che ci lavorano.

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